Gruppo di gestione dell’ansia

Nella pratica clinica è presente un elenco di disturbi clinici riferibili ai sintomi ansiosi, derivanti da caratteristiche specifiche relative ad una costellazione sintomatologica, e sono:

  • DAP, disturbo da attacchi di panico
  • DAG, disturbo d’ansia generalizzata
  • DAS, disturbo d’ansia sociale
  • disturbo d’ansia per la salute (ipocondria)
  • disturbo somatoforme
  • DPTS, disturbo post-traumatico da stress
  • disturbo dell’adattamento
  • fobia specifica

E’ possibile concepire tutti i precedenti come declinazioni di una macrocategoria, ossia la Sindrome Ansiosa, dove è presente un nucleo centrale psicopatologico caratterizzato da un pattern emotivo e cognitivo specifico, con un sistema di funzionamento simile ai diversi disturbi e mantenuto da simili meccanismi.

Pertanto, laddove il setting psicoterapico individuale è mirato al caso specifico riportato in seduta dal paziente, con il lavoro di gruppo si può lavorare sui meccanismi di innesco e di mantenimento della sintomatologia ansiosa  comuni, intervenendo sulle caratteristiche specifiche della singola esperienza individuale  attraverso la condivisione delle esperienze, ricerca di significati e strategie di coping in maniera corale.

Sia il lavoro individuale che quello di gruppo presentano vantaggi e svantaggi. Rispetto al lavoro psicoterapico in setting individuale, il gruppo di gestione dell’ansia ha in primis un vantaggio economico, con un costo più contenuto; è presente anche un vantaggio esperienziale, laddove il percorso condiviso rispetto ad un disagio e sofferenza ritenute strettamente personali, insormontabili, riferibili ad una propria scarsa efficacia, sono condivise tra i partecipanti, con un impatto positivo sulle emozioni negative secondarie; infine un vantaggio metodologico, dato dalla condivisione della psicoeducazione e degli homework (test, schede, diari) che in tal modo risultano maggiormente comprensibili.

 

Per poter accedere al gruppo di gestione dell’ansia è necessario prenotare un primo incontro psicodiagnostico, al fine di determinare se presente o meno un disturbo ansioso.

Se presente, sarà possibile chiedere informazioni più specifiche in termini di orari, giorni, costi, o altre informazioni.

All’interno del gruppo sono presenti regole alle quali fare riferimento, in primis quelle riferite alla privacy, nel rispetto della dignità e diritto alla riservatezza di ciascun partecipante.

 

In linea generale il gruppo di gestione dell’ansia partirà al raggiungimento della quota di iscritti pari a 3, fino ad un max di 6 partecipanti; gli incontri si svolgeranno 1 volta a settimana per un tempo di circa 90 minuti.

Festività natalizie. Quando la festa non è festa.

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Dottoressa, non va bene. Si avvicina Natale, in giro ci sono tante luci, tante persone che corrono di qua e di là, felici, tanti pacchetti, e regali e gran sorrisi, tutti belli, eleganti, con un gran da fare, …..e anche io ne avrei di cose da fare…tra un poco arrivano un po di parenti lontani, qualche dono lo dovrei preparare anche io,  ma……non me la sento. E poi, a parte che rimando sempre e il tempo mi sta sfuggendo tra le dita, è che non ne ho proprio voglia.

 

Dalle sue parole mi sembra di capire che non trova dentro di sé la voglia, il desiderio di essere presente e attiva in questo spirito natalizio che La circonda. E’ così?

 

Si.

 

Può spiegarmi meglio?

 

E’ che mi sembra che ciò che mi circonda sia falso, irreale, a momenti. In altri momenti penso che sono io quella sbagliata, quella triste in un mondo pieno di felicità. Ma, Dottoressa, di cosa dovrei essere felice? Lei conosce i miei guai, non riesco a venirne a capo. O almeno, in alcuni periodi va meglio, come in questi ultimi mesi, ma poi arrivano queste feste dove DEVI essere felice, tutti quelli con cui parli ti dicono di farti coraggio e di sorridere, ma come faccio, se dentro sto morendo? 

 

 

Quando una persona si trova in uno stato di sofferenza o fragilità, anche a fronte di condizioni cliniche conclamate, vive quotidianamente nel disagio, senza interruzione per feste e vacanze.

Nello specifico, Natale è per tutti la Festa, sia per i credenti che per gli non crede, in quanto occasione per stare in compagnia di persone care.

Eppure non per tutti è così, per differenti ragioni. Comune a queste persone è il vissuto di estraneità, di tristezza, di vuoto e disperazione che può derivare dal  confronto tra ciò che si sta vivendo e “la normale gioia che circonda il Natale”. E’ questo gap, questa differenza percepita soggettivamente, ritenuta abissale, che attiva o riattiva pensieri negativi automatici, che a loro volta mettono in moto circoli viziosi che sono alla base di un’escalation di sofferenza.

Riconoscere le proprie vulnerabilità e cercare un sostegno professionale è un buon punto di partenza per intervenire positivamente sulla propria salute mentale.

Lavorare su di sé, in termini di pensieri ed emozioni, sulle proprie credenze, sulle personali idiosincrasie è un dono che facciamo a noi stessi, all’insegna della autopromozione di una buona qualità di vita.

Violenza verbale e violenza psicologica

La violenza verbale consiste in una serie di attacchi alla persona basati prevalentemente sul linguaggio, mirati a umiliare, denigrare, offendere l’interlocutore, in maniera diretta (insulti, urla, parole scurrili) o indiretta (svalutazione del valore personale, in toto o in relazione ad alcuni ruoli, insoddisfazione delle azioni o della condotta, biasimo).

La violenza psicologica è composta da una serie di atti comunicativi, di natura verbale e/o comportamentale, che mira sistematicamente a sgretolare il senso di sé di una persona, attraverso il dubbio, il rifiuto, la non accettazione dell’Altro, la critica spietata, l’intimidazione volta a non parlare o denigrando ogni pensiero, desiderio, volontà perché etichettati come “non appropriati”, “infantili”, “dannaggiosi”, “senza alcun valore”.

Se il linguaggio dell’uomo violento si regge su frasi esplicite (stai zitta, non capisci niente, quando parlo io tu non devi fiatare, non contraddirmi, come ti permetti di rispondermi) ed implicite (era proprio necessario?, dici solo stupidaggini, mai sentite tante fesserie, faresti meglio a misurarti le parole prima di aprire bocca), il comportamento si palesa in azioni volte a dimostrare la propria superiorità: non rispettare i turni verbali, prevaricando la libera espressione, fare occhiate di disapprovazione, sminuire pubblicamente il pensiero della donna, urlare contro di lei, dimostrare il proprio disprezzo attraverso sguardi torvi, minacciosi, volti ad intimidire e a voler comunicare la piccolezza in termini di valori, di capacità, di intelligenza della donna.

Quanto detto non si esaurisce in un confronto o in una discussione, in quanto in UN momento di ira può succedere di esagerare e poter sconfinare nel cattivo gusto, da ambo le parti.

La violenza fisica e psicologica vanno invece ascritte ad uno stile comunicativo persistente ed abitudinario, volto a demolire la donna che esprime i propri pensieri ed emozioni, motivazioni, desideri, scelte quotidiane e di vita, nei suoi ruoli di donna, di madre, di figlia, di lavoratrice, di amica, di essere umano, al fine di preservare la propria immagine di padrone, di potere assoluto, di detentore della giustizia e della verità.

Nella violenza verbale dell’uomo si ritrova il senso di vulnerabilità dello stesso: chi non sa sostenere una discussione vuole interromperla, a qualsiasi costo; chi si sente minacciato nelle sue certezze da una visione della vita differente diventa aggressivo, al fine di preservare la sua fragile identità; chi egoisticamente ricerca la propria felicità è bloccato ed infastidito da chi richiama la sua attenzione ad un progetto condiviso; chi ha costruito con fatica un equilibrio instabile si sente frustrato nel dover rivedere le proprie scelte ed aprirsi ad una visione dell’Altro come valore aggiunto piuttosto che come minaccia.

L’Altro diventa minaccia, nemico, ostacolo da superare, il mezzo è la forza bruta, verbale e non.

Nella psicologia della violenza di genere, la donna è percepita come minacciosa, è nemico, è fastidio, va schiacciata.

La strategia predominante consiste nell’attaccare e nel ridimensionare il valore della donna: la prima attraverso espressioni dirette volte a mettere con le spalle al muro l’avversario, la seconda attraverso attacchi subdoli al proprio valore personale, in privato ma molto più spesso pubblicamente, dinanzi alla famiglia d’origine, ai figli, alle amicizie, a sconosciuti.

La donna aggredita, verbalmente e psicologicamente, sperimenta in maniera cronica diverse emozioni e sviluppa nuove credenze su di sé.

Innanzitutto lo stupore: chi non è in uno stato di conflitto e riceve risposte aggressive viene spiazzato, in quanto lo stato d’animo è sintonizzato su ben altre frequenze, ad esempio quelle della mera comunicazione, dello scambio d’idee.

Si presentano successivamente sbigottimento, incredulità “cosa succede, forse non sto capendo”; ci si mette in discussione “mi sarò espressa male, avrò sbagliato”.

Poi paura e vergogna, a cui possono seguire condizioni cliniche conclamate: disturbi ansiosi, disturbi depressivi, ma anche disordini alimentari, traumi e disturbi dissociativi, alterazioni del sonno.

Tutto diventa incerto, ci si sente sempre in pericolo, la percezione di sé è caratterizzata da dubbi, inefficienza, inefficacia, senso di vuoto. L’incertezza è una costante, diminuisce il proprio valore personale, aumenta il ritiro sociale, si entra in circoli viziosi che è difficile riconoscere e interrompere.

Ci si sente inappropriata come donna, come madre, calano le performance, la voglia di mettersi in gioco, la tranquillità, l’equilibrio; ci si sente debole nel non saper rispondere, schiacciato dal peso della critica e del disprezzo; ci si sente finita, obbligata ad accettare lo stato delle cose, senza speranza.

La difficoltà maggiore di queste situazioni, da non dimenticare, deriva dal legame che esiste tra violento e vittima: chi opera questo tipo di violenza non è il passante o il vicino di casa, al quale si può reagire, ma è il compagno di vita, padre dei propri figli, è chi mangia a tavola con te, chi dorme accanto a te, è la persona con cui esci ed incontri amici, è la persona che dice di amarti, che lo fa perché ti vuole bene, per migliorarti, è chi nega di averlo fatto ed è solo pura invenzione, è chi dici che è un tuo problema perché non sai accettare le critiche.

Questo tipo di violenze, verbale e psicologiche, sono subdole, sono nascoste, lasciano ferite che non si vedono, e che comunque sanguinano, influenzano molto la modificata visione che la donna ha di sé, la sua autoimmagine, non sono facilmente comunicabili, e spesso non sono credute: non sempre l’uomo violento verbalmente e psicologicamente è anche violento fisicamente, il più delle volte sono uomini che non alzano le mani, ma esprimono tutta la loro vulnerabilità, le loro fragilità, la loro inconsistenza attraverso la mera demolizione dell’identità altrui, al fine di fare emergere la loro “piccola”persona. Senza questo meccanismo di negazione dell’Altro, loro sarebbero identità vacue, deboli, inconsistenti, avrebbero una vita psicologica molto ristretta e fragile.

Se non si fossero trasformati in carnefici, si avrebbe una visione di loro come di persone che hanno bisogno di aiuto, che necessitano di un profondo lavoro psicoterapico al fine di cogliere i significati profondi delle loro debolezze e fragilità. Invece, la maggior parte delle volte si lavora con le vittime, al fine di fornire gli strumenti utili per riconoscere lo stato di vessazioni nel quale vivono, accendere una luce di speranza verso la non ineluttabilità della situazione, per renderle nuovamente attive e padrone della loro vita.

 

 

 

 

Ansia normale e patologica

L’ansia, di per sé, è un’emozione primaria, innata,  indipendente dal contesto d’apprendimento e culturale (famosi gli studi sulle espressioni facciali legate alle emozioni in bambini molto piccoli), presente nel bambino già verso l’ottavo mese di vita, dove si presenta come paura dell’estraneo.

Come tutte le emozioni, ha un forte valore comunicativo e sociale, basata sull’impronta evolutiva di predisposizione di una risposta adeguata e adattiva agli stimoli presenti nell’ambiente. Aumento battito cardiaco, sudorazione, iperventilazione, tremori e tensione muscolari risultano essere aggiustamenti fisiologici avviati da un comando a carattere del sistema nervoso centrale per favorire nell’organismo una risposta di tipo “attacca, scappa o immobilizzati” dinanzi ad un pericolo.

Dunque l’ansia prepara un organismo a reagire ad una minaccia, in maniera immediata, non ragionata, in quanto il ragionamento, seppur in forma ridotta, comporta un impegno di tempo che l’organismo non si può permettere dinanzi ad un pericolo imminente.

Questa argomentazione ci illumina su come tra l’uomo e gli altri mammiferi vi sia una linea di continuità: basti pensare alle reazioni fulminee che siamo abituati ad osservare nei documentari naturalistici, dove la preda “scatta” alla percezione del minimo movimento da parte del predatore, e come questi compia movimenti quasi impercettibili al fine di avvicinarsi quanto più possibile alla preda presa di mira.

Le reazioni fisiologiche che sono presenti nell’ansia trovano spiegazione e comprensione nella dinamica sopra citata: l’organismo che percepisce la minaccia attiva in un tempo limitatissimo tutte le risorse di cui dispone per fronteggiare il pericolo o per scappare, dunque l’ossigeno deve essere presente in gran quantità per irradiare ogni parte del corpo, il cuore deve pompare tutto l’ossigeno necessario, ogni muscolo deve essere pronto e teso, la concentrazione massima per percepire minimi variazioni nell’ambiente circostante.

Eppure l’emozione in generale, e in questo caso l’ansia, si avvale di una componente cognitiva, un giudizio iniziale, ciò che R. Lazarus (1966) chiama “valutazione primaria”, che consiste nel riconoscimento di una situazione come minaccia e nella valutazione della probabilità, l’immediatezza e il grado di possibile conseguente danno. Se tale giudizio è notevolmente negativo, l’organismo non prova a fuggire, in quanto la fuga risulterebbe inutile, ma “si congela” (freezing), basandosi sull’assunto che, sempre prendendo come esempio il mondo animale, il predatore non si cibi di animali morti, per non ingerire cibo avariato, compromettendo la propria esistenza.

Questo tipo di reazione, il freezing, seppur difficilmente trova applicazione nel genere umano odierno, in quanto non è comune il cannibalismo, si può riscontrare in diverse situazioni ansiogene, in quanto le reazioni emotive sono state inglobate nel nostro cervello dei nostri antenati preistorici milioni di anni fa, consolidate nelle strutture limbiche nella parte più profonda e antica del telencefalo e correlate alle funzioni fondamentali per la conservazione della specie.

Dunque l’ansia è un’emozione importante, ma si presenta all’esperienza soggettiva come tendenzialmente spiacevole: se una lieve tensione che accompagna l’azione può essere sopportata e gestita nel breve periodo, un’ansia forte dà luogo a forti sensazioni fisiologiche che, insieme ad una valutazione primaria negativa e ad un tempo maggiore di persistenza, può produrre sensazioni estremamente sgradevoli ed insopportabili.

E’ ciò che si sperimenta nell’ansia forte e nell’ansia patologica (attacchi di panico, disturbo da panico, agorafobia, ipocondria, ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, ansia specifica, ansia generalizzata).

La prima può verificarsi in presenza di forti minacce di pericolo o laddove si valuti un evento particolarmente grave, immediato, comportante gravi conseguenze: maggiore è la minaccia, maggiore sono le risorse messe in campo per fronteggiarla.

La seconda si sperimenta nel momento in cui tutta la costellazione sintomatologica si attiva in assenza di un reale pericolo o in contesti ambientali che di per sé non comportano minacce.

In questo caso le reazioni più frequenti sono: allarme sulle sensazioni percepite, utilizzo di comportamenti di protezione, evitamento.

Lo spaventarsi delle sensazioni corporee percepite come sgradevoli in genere comportano un aumento di ansia, con conseguente peggioramento della situazione.

L’utilizzo di comportamenti di protezione (sedersi, sdraiarsi, allontanarsi, etc.) possono produrre un beneficio nel breve periodo, ma nel lungo periodo non risolvono la situazione ansiogena né producono benefici consistenti.

L’evitamento (non frequentare luoghi dove si presenta la sintomatologia, non guidare, non parlare in pubblico, etc.), oltre a peggiorare e a prolungare il disagio psicologico in atto, conduce alla lunga ad un peggioramento della qualità di vita di una persona, che vede restringere intorno a sé gli ambiti di interesse e di azione, all’insegna dell’impoverimento della vita in generale e limitazioni al proprio valore personale.