Bambini e genitori a tavola

Succede sovente che, nelle famiglie con bambini, in occasione dei pasti possano insorgere momenti di tensione, o addirittura conflitto aperto, per una condotta alimentare non ritenuta appropriata.

Si spazia dal mangiare in piedi o in posizioni acrobatiche, dall’andare e venire dal tavolo per ogni boccone, dal mangiare solo con i cartoni, passando per scelte esclusive di determinati alimenti, a pasti ridotti o totale digiuni.

Possono verificarsi capricci, ricatti e imposizioni, fino a lacrime e disperazione, da parte dei bambini e da parte dei genitori.

Dal punto di vista genitoriale, è possibile imbattersi in 2 stili di comportamento preferenziali: il primo consiste nell’obbligo di seguire determinate regole, alimentari e di condotta, che mirano a fornire una struttura educativa alimentare; il secondo si connota come un “lasciar fare”, “passerà”, che si caratterizza dunque come una sorta di accondiscendenza ai voleri del bambino, o libertà di esprimersi.

Questi due stili sono ovviamente gli estremi di un continuum lungo il quale si dipanano tutta una serie di tentativi “quotidiani” di trovare una soluzione di gestione della tavola e del quieto desinare.

Interrogativo dei genitori è come gestire questi fenomeni, da dove hanno avuto origine, quali le loro mancanze educative, se è possibile intervenire o se è ormai una situazione consolidata, se si è in presenza di una condizione clinica, e altro.

Ne consegue uno stato emotivo che permane nel tempo, da un pasto all’altro e a quello successivo, che  può essere caratterizzato da rabbia, ansia, frustrazione, sensi di colpa, sentimenti di incapacità, di inefficacia, di timore per lo stato di salute del bambino, ma anche di tensioni tra coniugi, con relativa colpevolizzazione di uno nei confronti dell’altro, in termini di coercizione contro lassismo, di accuse reciproche, di assenza contro totale delega.

Fornire la spiegazione del fenomeno sarebbe semplicistico, in quanto esso è multideterminato, e per questo, soggetto alla combinazione di molte variabili che si relazionano tra loro, ad esempio:

  • i partecipanti alla tavola
  • lo stile familiare di conduzione del pasto
  • il carattere dei partecipanti
  • le regole della famiglia
  • le aspettative dei genitori, basate sulle regole acquisite nelle famiglie d’origine
  • la presenza del televisore, telefoni, tablet
  • preparazione dei pasti/stile dietetico
  • stile relazionale genitori/figli.

Tutti gli elementi si possono combinare tra loro e dare vita  a scenari diversi. E differenti possono essere i modi in cui si affrontano le situazioni che si vengono a creare. Alcune situazioni evolvono in maniera naturale e si risolvono, altre perdurano. Se intervenire o meno resta nelle capacità della coppia genitoriale di osservare, confrontarsi ed intervenire in maniera congiunta, consultandosi con il pediatra o lo psicologo esperto in disturbi alimentari.

Ma restano alcune considerazioni da fare .

Il bambino è una persona in divenire, impara dall’ambiente e, in relazione all’età, si pone in maniera attiva, esercitando la volontà di essere attore delle esperienze che lo circondano e lo riguardano, attraverso la scelta.

Dunque il bambino assorbe ciò che lo circonda, non solo in termini linguistici (ciò che gli si dice), ma anche e soprattutto in termini comportamentali (ciò che si fa). Osserva e ripropone le dinamiche che coglie con l’imperativo tipico dei bambini: senza filtri, senza accomodamenti, in maniera assoluta. Pertanto i comportamenti a tavola, ai quali noi adulti non prestiamo attenzione o che consideriamo appropriati in base allo status di adulto, come mangiare in silenzio assorbiti da tv e telefonini, il bambino li fa suoi, mangiando solo guardando i cartoni o con il telefono in mano.

Il bambino può portare a tavola ciò che coglie fuori dai pasti: tensioni, disinteresse percepito, incongruenze, ma anche solitudine, difficoltà indipendenti dall’assetto familiare, rabbia e tristezza. In diverse fasce di età tendenzialmente si acquisiscono delle abilità e competenze psicologiche, senza le quali o in mancanza di un adeguato supporto genitoriale che possa consolidarle, il bambino non è in grado di riconoscere, dare un nome e condividere un mondo interiore basato su emozioni negative: il linguaggio è quello corporeo, attraverso comunicazioni fisiologiche (inappetenza, mal di stomaco, capricci, iperattività, assorbimento in attività non pertinenti).

Il bambino può voler farsi Vedere: attraverso la presa di decisione, la scelta, l’autonomia decisionale. La tavola diventa il banco di prova dove esercitare tale autonomia, i genitori il pubblico che assiste alla sua performance di essere diventato grande.

Inoltre vi sono una serie di atteggiamenti frequentemente riscontrati nei bambini, come una selezione del cibo in base all’aspetto e al colore, alla disposizione nel piatto, alle consistenze degli alimenti, alle preferenze alimentari e oppositività rispetto un determinato cibo; tendenzialmente sono atteggiamenti transitori, che si risolvono nel tempo, da non patologizzare.

Dinanzi a questo ampio panorama di comportamenti e atteggiamenti legati ai momenti del pasto, alcune indicazioni di carattere generale per supportare i genitori in difficoltà:

  1. richiedere un consulto dal pediatra solo se le scelte alimentari del bambino sono severamente limitate in termini nutrizionali, cioè se il bambino assume solo pochissime categorie differenti di cibo (solo pasta in bianco, rifiuto categorico di frutta e verdura, etc) e/o se si verifica un calo ponderale importante e in breve tempo;
  2. non forzare il bambino ad assumere determinati cibi, in quanto ciò potrebbe portare a creare resistenze;
  3. non ricattare il bambino (se mangi, ti compro un gioco), ciò significa delegare il potere e i bambini lo avvertono e lo usano;
  4. non creare un clima a tavola di tensione e conflitti, questo potrebbe essere la base per futuri disturbi conclamati;
  5. è preferibile dare il buon esempio a livello comportamentale: stare seduti a tavola compostamente, mangiare tutti i cibi presenti al pasto, essere presenti, tranquilli, disponibili;
  6. fornire regole ed applicarle nel tempo, senza imporle: i bambini necessitano di una struttura e assorbono e consolidano le abitudini familiari gradualmente;
  7. offrire un’ampia varietà di cibi, colorati, divertenti e appetibili: esistono una grande varietà di ricette basate sui medesimi ingredienti;
  8. osservare, ascoltare e accogliere le preferenze dei bambini, con flessibilità e coinvolgimento: chi di noi mangia tutto di tutto? anche per i piccoli è così, l’importante è che il rispetto delle preferenze non si trasformi in limitazioni strutturali;
  9. far socializzare i bambini con il cibo, toccarlo, lavarlo, maneggiarlo, riconoscerlo, e perchè no?, in base all’età, scegliere la ricetta da mettere a tavola e partecipare alla preparazione;
  10. porre attenzione se ulteriori difficoltà o disagi emergono in altre aree funzionali, come il sonno, l’attenzione, etc.

Per i genitori che vivono situazioni di stress dinanzi a scenari simili, non è facile tenere sotto controllo la propria emotività. Tale disagio, per quanto si tenti di nasconderlo, celarlo agli occhi dei propri figli, comunque verrà avvertito: il linguaggio preferenziale dei bambini è quello corporeo e anche se la mamma o il papà affermano una cosa, loro necessariamente percepiranno tutt’altro, innescando confusione e ambiguità nella comunicazione, con conseguenze sull’emotività dei bambini, in termini negativi.

 

Gruppo di gestione dell’ansia

Nella pratica clinica è presente un elenco di disturbi clinici riferibili ai sintomi ansiosi, derivanti da caratteristiche specifiche relative ad una costellazione sintomatologica, e sono:

  • DAP, disturbo da attacchi di panico
  • DAG, disturbo d’ansia generalizzata
  • DAS, disturbo d’ansia sociale
  • disturbo d’ansia per la salute (ipocondria)
  • disturbo somatoforme
  • DPTS, disturbo post-traumatico da stress
  • disturbo dell’adattamento
  • fobia specifica

E’ possibile concepire tutti i precedenti come declinazioni di una macrocategoria, ossia la Sindrome Ansiosa, dove è presente un nucleo centrale psicopatologico caratterizzato da un pattern emotivo e cognitivo specifico, con un sistema di funzionamento simile ai diversi disturbi e mantenuto da simili meccanismi.

Pertanto, laddove il setting psicoterapico individuale è mirato al caso specifico riportato in seduta dal paziente, con il lavoro di gruppo si può lavorare sui meccanismi di innesco e di mantenimento della sintomatologia ansiosa  comuni, intervenendo sulle caratteristiche specifiche della singola esperienza individuale  attraverso la condivisione delle esperienze, ricerca di significati e strategie di coping in maniera corale.

Sia il lavoro individuale che quello di gruppo presentano vantaggi e svantaggi. Rispetto al lavoro psicoterapico in setting individuale, il gruppo di gestione dell’ansia ha in primis un vantaggio economico, con un costo più contenuto; è presente anche un vantaggio esperienziale, laddove il percorso condiviso rispetto ad un disagio e sofferenza ritenute strettamente personali, insormontabili, riferibili ad una propria scarsa efficacia, sono condivise tra i partecipanti, con un impatto positivo sulle emozioni negative secondarie; infine un vantaggio metodologico, dato dalla condivisione della psicoeducazione e degli homework (test, schede, diari) che in tal modo risultano maggiormente comprensibili.

 

Per poter accedere al gruppo di gestione dell’ansia è necessario prenotare un primo incontro psicodiagnostico, al fine di determinare se presente o meno un disturbo ansioso.

Se presente, sarà possibile chiedere informazioni più specifiche in termini di orari, giorni, costi, o altre informazioni.

All’interno del gruppo sono presenti regole alle quali fare riferimento, in primis quelle riferite alla privacy, nel rispetto della dignità e diritto alla riservatezza di ciascun partecipante.

 

In linea generale il gruppo di gestione dell’ansia partirà al raggiungimento della quota di iscritti pari a 3, fino ad un max di 6 partecipanti; gli incontri si svolgeranno 1 volta a settimana per un tempo di circa 90 minuti.

Violenza verbale e violenza psicologica

La violenza verbale consiste in una serie di attacchi alla persona basati prevalentemente sul linguaggio, mirati a umiliare, denigrare, offendere l’interlocutore, in maniera diretta (insulti, urla, parole scurrili) o indiretta (svalutazione del valore personale, in toto o in relazione ad alcuni ruoli, insoddisfazione delle azioni o della condotta, biasimo).

La violenza psicologica è composta da una serie di atti comunicativi, di natura verbale e/o comportamentale, che mira sistematicamente a sgretolare il senso di sé di una persona, attraverso il dubbio, il rifiuto, la non accettazione dell’Altro, la critica spietata, l’intimidazione volta a non parlare o denigrando ogni pensiero, desiderio, volontà perché etichettati come “non appropriati”, “infantili”, “dannaggiosi”, “senza alcun valore”.

Se il linguaggio dell’uomo violento si regge su frasi esplicite (stai zitta, non capisci niente, quando parlo io tu non devi fiatare, non contraddirmi, come ti permetti di rispondermi) ed implicite (era proprio necessario?, dici solo stupidaggini, mai sentite tante fesserie, faresti meglio a misurarti le parole prima di aprire bocca), il comportamento si palesa in azioni volte a dimostrare la propria superiorità: non rispettare i turni verbali, prevaricando la libera espressione, fare occhiate di disapprovazione, sminuire pubblicamente il pensiero della donna, urlare contro di lei, dimostrare il proprio disprezzo attraverso sguardi torvi, minacciosi, volti ad intimidire e a voler comunicare la piccolezza in termini di valori, di capacità, di intelligenza della donna.

Quanto detto non si esaurisce in un confronto o in una discussione, in quanto in UN momento di ira può succedere di esagerare e poter sconfinare nel cattivo gusto, da ambo le parti.

La violenza fisica e psicologica vanno invece ascritte ad uno stile comunicativo persistente ed abitudinario, volto a demolire la donna che esprime i propri pensieri ed emozioni, motivazioni, desideri, scelte quotidiane e di vita, nei suoi ruoli di donna, di madre, di figlia, di lavoratrice, di amica, di essere umano, al fine di preservare la propria immagine di padrone, di potere assoluto, di detentore della giustizia e della verità.

Nella violenza verbale dell’uomo si ritrova il senso di vulnerabilità dello stesso: chi non sa sostenere una discussione vuole interromperla, a qualsiasi costo; chi si sente minacciato nelle sue certezze da una visione della vita differente diventa aggressivo, al fine di preservare la sua fragile identità; chi egoisticamente ricerca la propria felicità è bloccato ed infastidito da chi richiama la sua attenzione ad un progetto condiviso; chi ha costruito con fatica un equilibrio instabile si sente frustrato nel dover rivedere le proprie scelte ed aprirsi ad una visione dell’Altro come valore aggiunto piuttosto che come minaccia.

L’Altro diventa minaccia, nemico, ostacolo da superare, il mezzo è la forza bruta, verbale e non.

Nella psicologia della violenza di genere, la donna è percepita come minacciosa, è nemico, è fastidio, va schiacciata.

La strategia predominante consiste nell’attaccare e nel ridimensionare il valore della donna: la prima attraverso espressioni dirette volte a mettere con le spalle al muro l’avversario, la seconda attraverso attacchi subdoli al proprio valore personale, in privato ma molto più spesso pubblicamente, dinanzi alla famiglia d’origine, ai figli, alle amicizie, a sconosciuti.

La donna aggredita, verbalmente e psicologicamente, sperimenta in maniera cronica diverse emozioni e sviluppa nuove credenze su di sé.

Innanzitutto lo stupore: chi non è in uno stato di conflitto e riceve risposte aggressive viene spiazzato, in quanto lo stato d’animo è sintonizzato su ben altre frequenze, ad esempio quelle della mera comunicazione, dello scambio d’idee.

Si presentano successivamente sbigottimento, incredulità “cosa succede, forse non sto capendo”; ci si mette in discussione “mi sarò espressa male, avrò sbagliato”.

Poi paura e vergogna, a cui possono seguire condizioni cliniche conclamate: disturbi ansiosi, disturbi depressivi, ma anche disordini alimentari, traumi e disturbi dissociativi, alterazioni del sonno.

Tutto diventa incerto, ci si sente sempre in pericolo, la percezione di sé è caratterizzata da dubbi, inefficienza, inefficacia, senso di vuoto. L’incertezza è una costante, diminuisce il proprio valore personale, aumenta il ritiro sociale, si entra in circoli viziosi che è difficile riconoscere e interrompere.

Ci si sente inappropriata come donna, come madre, calano le performance, la voglia di mettersi in gioco, la tranquillità, l’equilibrio; ci si sente debole nel non saper rispondere, schiacciato dal peso della critica e del disprezzo; ci si sente finita, obbligata ad accettare lo stato delle cose, senza speranza.

La difficoltà maggiore di queste situazioni, da non dimenticare, deriva dal legame che esiste tra violento e vittima: chi opera questo tipo di violenza non è il passante o il vicino di casa, al quale si può reagire, ma è il compagno di vita, padre dei propri figli, è chi mangia a tavola con te, chi dorme accanto a te, è la persona con cui esci ed incontri amici, è la persona che dice di amarti, che lo fa perché ti vuole bene, per migliorarti, è chi nega di averlo fatto ed è solo pura invenzione, è chi dici che è un tuo problema perché non sai accettare le critiche.

Questo tipo di violenze, verbale e psicologiche, sono subdole, sono nascoste, lasciano ferite che non si vedono, e che comunque sanguinano, influenzano molto la modificata visione che la donna ha di sé, la sua autoimmagine, non sono facilmente comunicabili, e spesso non sono credute: non sempre l’uomo violento verbalmente e psicologicamente è anche violento fisicamente, il più delle volte sono uomini che non alzano le mani, ma esprimono tutta la loro vulnerabilità, le loro fragilità, la loro inconsistenza attraverso la mera demolizione dell’identità altrui, al fine di fare emergere la loro “piccola”persona. Senza questo meccanismo di negazione dell’Altro, loro sarebbero identità vacue, deboli, inconsistenti, avrebbero una vita psicologica molto ristretta e fragile.

Se non si fossero trasformati in carnefici, si avrebbe una visione di loro come di persone che hanno bisogno di aiuto, che necessitano di un profondo lavoro psicoterapico al fine di cogliere i significati profondi delle loro debolezze e fragilità. Invece, la maggior parte delle volte si lavora con le vittime, al fine di fornire gli strumenti utili per riconoscere lo stato di vessazioni nel quale vivono, accendere una luce di speranza verso la non ineluttabilità della situazione, per renderle nuovamente attive e padrone della loro vita.

 

 

 

 

Scuola…si ricomincia!!! Che paura

Per alcuni riparte la scuola, per altri inizia una nuova avventura attraverso l’ingresso nel mondo scuola.

Sia per chi riprende il percorso scolastico, sia per chi vi si affaccia per la prima volta, la scuola non rappresenta solo ore trascorse in un edificio ad apprendere delle nozioni, ma è un esperienza più complessa che racchiude molti altri elementi.

Vi sono componenti personali, relazionali, sociali in atto.

Oltre ad imparare, a scuola si conoscono nuove persone, adulti e coetanei, e si riprendono relazioni interrotte dalle vacanze estive, alcune positive, altre conflittuali. D’altronde, chi non ha avuto esperienza di un insegnante severo o di un compagno che esagerava e che non ci stava molto simpatico?

A questo si aggiungono previsioni su : compiti, studio, impegno, l’idea di un anno chiuso in una stanza mentre i nostri giorni spensierati divengono sempre meno vita vissuta e sempre più ricordi…

Perché così come esiste per gli adulti la malinconia da vacanza terminata, che per alcuni può assumere i connotati di una vera e propria sindrome, con sintomi emotivi, cognitivi, comportamentali e fisiologici, lo stesso vale per i bambini e i ragazzi.

E così succede che davanti ai cancelli di scuola, in attesa che suoni la campanella, si ascoltino racconti di mal di pancia, mal di testa, malumori, comportamenti oppositivi, e si leggono occhi impauriti, fissi su un punto, ad indicare l’atteggiamento di chi, invece di vivere il momento con curiosità e felicità nell’incontrare un nuovo compagno o ritrovarne uno lasciato a Giugno, è tutto concentrato ad anticipare mentalmente situazioni ritenute spiacevoli o pericolose, a rimuginare sulle conseguenze negative di eventuali performance scolastiche fallite, su come i maestri potrebbero proporre attività difficoltose rispetto alle quali ci si autovaluta in maniera negativa, e via dicendo.

Niente scenari apocalittici per i genitori, siamo in piena attività ansiogena.

Di per sé, la presenza dell’ansia non è patologica: questa emozione è stata predisposta dalla natura proprio con l’intento di prepararci all’azione, e l’attività fisiologica che è un tutt’uno con il vissuto emotivo pone le basi per la riuscita evolutiva dell’emozione stessa.

Il problema dell’attivazione fisiologica dell’ansia è che è spiacevole: mal di pancia, mal di testa, vomito, respiro corto o affannoso, tremore agli arti, palpitazioni, sudorazione, vertigini, sono tutti sintomi che ci inducono a valutare la situazione contingente come spiacevole, pericolosa, qualcosa di cui preoccuparci.

A questo punto il ruolo genitoriale diviene fondamentale: se un bambino vive l’ansia per il rientro a scuola, siamo dinanzi ad una catastrofizzazione dell’evento, e la differenza la fa l’atteggiamento dell’adulto.

Innanzitutto è necessario indagare senza porre enfasi e farsi prendere dal panico: da una parte arricchiamo il paniere delle informazioni al fine di escludere una reale condizione di malattia (ad es. una costipazione gastrointestinale o un principio di influenza), dall’altra trasmettiamo sicurezza e vicinanza.

In secondo luogo si presta attenzione ad un momento di difficoltà dell’Altro: sentirsi accudito in una situazioni di disagio comporta di per sè un notevole miglioramento, e attraverso l’ascolto partecipe e la condivisione il disagio percepito non è più concentrato in una persona sola, ma è diviso con chi è affettivamente vicino e, quindi, meno gravoso.

Infine, è importante normalizzare la problematica emersa: accogliendo la narrazione dell’Altro, fornendo comprensione e racconti di una situazione analoga vissuta, individuando insieme scenari alternativi di ciò che probabilmente si incontrerà.

L’importante è non sminuire il vissuto emerso, frasi del tipo “Non fare così, non preoccuparti, è stupido affrontare in questo modo la scuola” e via dicendo, non migliorano la situazione: le preoccupazioni non si mandano via a comando, ma si affrontano; il giudizio su una preoccupazione può far emergere vissuti di inadeguatezza e abbassare il livello di autostima; il disagio cognitivo ed emotivo verso una situazione temuta può trasformarsi in una problematica conclamata sé non affrontata con chiarezza, trasformando fantasmi in qualcosa di tangibile.

Può succedere che i genitori si sentano inadeguati nell’affrontare la situazione, o andare nel panico insieme ai figli, e questo può succedere per molti motivi differenti: carattere, temperamento, sentimenti di inadeguatezza o per vissuti emotivi analoghi di episodi del passato che hanno lasciato il segno. Qualsiasi sia il motivo individuato è bene armarsi ed affrontare questi eventuali limiti individuati, tenendo ben presente che il proprio figlio sta vivendo una situazione di disagio nel momento presente, ed è necessaria una azione contingente che non sempre coincide con analisi profonde e lavori psicologici personali lunghi.

E’ necessario riappropriarsi nel momento presente del proprio ruolo genitoriale, attraverso la presenza e la vicinanza “ora”, mettendo in stand-by le proprie insicurezze e assumendo un ruolo di guida, di riferimento, di presenza attiva e positiva, al fine di gestire al meglio la situazione emersa, che potrebbe non limitarsi al primo giorno di scuola, ma protrarsi per un periodo più o meno lungo, in base alla gravità della situazione stessa.

Se il ruolo genitoriale non risulta efficace, piuttosto che caricarsi di sentimenti negativi legati a impotenza, inefficacia, sensi di colpa e rabbia verso sè stessi, è più indicato chiedere un aiuto professionale che sostenga l’adulto in questo ruolo di per sé mai semplice, al fine di gestire al meglio la dinamica in atto.

La terapia cognitivo comportamentale risulta particolarmente utile in questi casi, perché di per sé è una terapia breve, strategica, aiuta ad acquisire in maniera consapevole strategie di coping per gestire le difficoltà, oltre a lavorare su aspetti più profondi e strutturati della personalità.

 

Vittime di Narciso. La Sindrome da Abuso Narcisistico

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Non è insolito leggere di Disturbi di Personalità su libri, riviste, internet, servizi televisivi. Tali disturbi sono descritti come costellazioni di personalità ben delineate, che generalmente comportano conseguenze significative nella qualità di vita di chi ne soffre e nelle relazioni sociali che tali soggetti instaurano, e sono caratterizzate da quadri emotivi, comportamentali, cognitivi e relazionali tipici per ogni disturbo. Molta la ricerca scientifica, molta la letteratura al riguardo, al fine di pervenire a modelli di intervento efficienti ed efficaci.

Un esempio è dato dal Disturbo Narcisistico di personalità: tali soggetti si sentono superiori, esigono ammirazione e sono scarsamente empatici; credono che il loro valore sia altissimo, grandioso, che i loro bisogni siano antecedenti a quelli degli altri e, pertanto, autorizzati a pretendere, sfruttare, offendere, calpestare gli altri, che di contro ritengono di poco valore, di secondo ordine. I soggetti narcisistici sono generalmente auto-centrati, arroganti, egoisti, si sentono superiori e invidiati.

Ma quali conseguenze affronta chi entra in contatto con questi soggetti ? Cosa può comportare entrare in relazione con una persona che soffre di un quadro clinico importante come quello di un disturbo di personalità?

In America è stato introdotto un nuovo disturbo, la Sindrome da Abuso Narcisistico (Narcissistic Abuse Syndrome), anche se ancora non riconosciuto ufficialmente, che a parere dei professionisti del settore Salute Mentale mira a dare dignità e comprensione ad un quadro sintomatologico rilevabile in soggetti vittime di narcisisti e che non sono ascrivibili alle caratteristiche di personalità del soggetto stesso.

Può accadere che persone con una sana vita relazionale stabiliscano rapporti sentimentali con persone che mentono, manipolano, abusano al punto da provocare un livello di stress talmente elevato da attivare tutta una serie di conseguenze:

  • sentimenti di tristezza fino alla disperazione

  • stato di ipervigilanza con conseguente ansia e paura

  • cambiamenti d’umore repentini, con predisposizione all’irritabilità, rabbia, vergogna, sensi di colpa, autoaccusa

  • stati mentali di dubbio percettivo, negazione, incredulità

  • difficoltà di concentrazione, con conseguente derealizzazione

  • isolamento sociale

  • perdita di controllo in diverse aree (personale, familiare, lavorativa).

La sintomatologia descritta appare simile a quella riscontrabile nel Disturbo post Traumatico da Stress (che può prendere avvio dal vivere esperienze forti e sconvolgenti, come terremoti, incidenti mortali, guerre, violenze fisiche e sessuali), ciò che varia è la causa attivante il disturbo.

Nella Sindrome da Abuso Narcisistico è la relazione abusante a dare il via al quadro sintomatologico (non deriva da caratteristiche psicologiche preesistenti nella vittima), è sempre caratterizzata da una forma di dipendenza indotta dal soggetto abusante, soprattutto con caratteristiche di personalità narcisista o psicopatica.

Sempre in America, sono stati compiuti studi relativi alle modificazioni cerebrali determinate da relazioni di tipo narcisistico come fonte primaria di stress, al fine di avvalorare quanto emerso in clinica.

D’altronde lo stress, indipendentemente dalla causa, comporta modificazioni negative significative su corpo e mente, deteriorandoli e influendo sulla qualità di vita e sul futuro: lo stress cronico può modificare le dimensioni del cervello, le sue strutture, il suo funzionamento ed è in grado di modificare anche il patrimonio genetico. In particolare lo stress cronico influisce sull’aumento delle connessioni cerebrali della paura e dell’aumento del rilascio di cortisolo, con 2 conseguenze importanti: diminuzione dei segnali elettrici nell’ippocampo (sede di apprendimento, memoria, controllo allo stress) e perdita di connessioni sinaptiche tra i neuroni e contrazione della corteccia prefrontale (zona del cervello coinvolta in concentrazione, decisione, giudizio, interazione sociale).

Dunque, la relazione con un soggetto abusante, con un disturbo di personalità narcisistico, può lasciare segni importanti sulla psiche di una persona, segni che non vanno nascosti, sottaciuti, negati, ma ascoltati e valutati presso specialisti della salute mentale, al fine di intervenire tempestivamente con percorsi di psicoterapia efficaci che riescano a dare voce, accettazione, sostegno, aiuto concreto ai sorprusi subiti e nuova linfa vitale.

Disturbo d’ansia sociale

Chiunque nella vita ha fatto esperienza di doversi esporre in pubblico: esami scolastici, interventi pubblici, essere chiamati ad intervenire verbalmente in un gruppo di persone (associazioni, riunioni di condominio, etc), compiere un azione dinanzi ad una platea, e sarà stata esperienza comune sentirsi sotto osservazione, un po impacciati, con il sopraggiugere di tremore e tensione, la voce un po vacillante, ma poi tutto va bene. Nulla di preoccupante, è solo un pò di ansia da prestazione. E’ assolutamente normale, è comune, è evolutivamente determinata, ha un definito intento preparatorio di attivazione di un organismo nell’ambiente al fine di compiere una performance, di qualsiasi natura, anche sociale.

Per alcune persone, questo timore o ansia può essere accentuata da una componente caratteriale: chi è tendenzialmente timido può preferire ascoltare piuttosto che intervenire in una discussione dove partecipano molte persone, così come una persona timida potrebbe preferire passare inosservata pubblicamente piuttosto che essere il cuore della festa, anche tra amici.

Ma potrebbe essere anche il contrario: ci sono persone che non temono di essere visibili pubblicamente, eppure riscontrano una forte sintomatologia ansiosa dinanzi ad un esame scolastico o in un confronto lavorativo con i colleghi o i superiori.

Fin quando questa ansia, seppur presente, può essere gestita e una persona riesce a portare a termine la propria performance sociale con soddisfazione, tutto bene: un pò di tensione si può sopportare, anche se non è gradevole, l’importante è procedere nella propria esperienza di vita raggiungendo i traguardi sperati.

Ma cosa succede se l’ansia preparatoria non si risolve naturalmente? Se si mantiene nel tempo, anche quando cerchiamo di affrontarla? Se rovina il risultato delle nostre azioni sociali? Se è talmente soverchiante da impedirci di raggiungere il nostro risultato, magari in termini lavorativi, con conseguenze negative?

Generalmente queste esperienze di ansia sociale si presentano con la tipica sintomatologia ansiosa, ovvero una condizione di sofferenza psicologica caratterizzata da rossore, tremore, sudorazione, nodo alla gola, tachicardia, sensazione di capogiri o vertigini, e dal timore marcato e duraturo di una situazione sociale, reale o temuta, in cui si è esposti all’altrui giudizio.

Ciò che contraddistingue la normale ansia da quella sociale sono i temi dei pensieri che passano per la mente: sentire gli sguardi dei presenti diretti tutti sulla propria persona, dubbi sui giudizi negativi su di sé, timore di sbagliare, di essere inadeguato, di fallire, di fare una pessima figura.

Quando si affronta la tematica ansiosa, il focus è incentrato sulla qualità di vita di una persona, perché di ansia, diciamolo, non si muore, anche se talvolta l’esperienza soggettiva si avvicina pericolosamente alla sensazione di morte, o di raggiungimento della follia, o di soffocamento o infarto.

Qualsiasi persona farebbe di tutto per sfuggire un’esperienza così sgradevole, pagando pesanti conseguenze: limitando fortemente la propria vita, in termini di autonomia, limitando, nei casi più estremi rovinando, la propria carriera lavorativa, conducendo una vita sociale povera, precludendosi talvolta una vita sentimentale, per paura di essere visibile e di essere sotto giudizio nella società.

Ovviamente il disturbo di ansia sociale va inteso come condizione clinica all’interno di un continuum tra due posizioni limite: ad un estremo si collocano persone tendenzialmente timide che temono di esporsi o preferirebbero mantenere un basso profilo sociale ma riescono ad affrontare situazioni sociali senza impedimenti psicologici importanti (timidezza patologica); all’altro estremo troviamo soggetti che vivono condizioni di forte sofferenza psicologica negli eventi pubblici o sociali, al punto di evitare tout court le situazioni sociali ansiogene (disturbo evitante di personalità); nel mezzo si riscontrano la maggior parte dei casi di persone che soffrono di ansia sociale, presentando un livello di gravità e una sintomatologia nella media, e correlata a significati personali ascrivibili alla propria storia di vita.

Clinicamente tale condizione può essere diagnosticata da uno psicologo come Disturbo d’ansia sociale, se sono presenti una serie di condizioni in termini di sintomatologia e di durata, e può essere affrontata in terapia con buoni risultati.

La terapia cognitivo-comportamentale di questo disturbo propone modelli e tecniche d’intervento differenziate, che condividono un nucleo d’interpretazione: la convinzione di essere inadeguati socialmente e di essere oggetto del giudizio negativo altrui.

Il lavoro psicoterapico offre buone probabilità di risoluzione del disturbo in questione, forte della collaborazione empirica alla base di questo approccio terapeutico, dove il lavoro di squadra paziente-terapeuta è imprescindibile per il buon esito del trattamento e dove le difficoltà ansiogene possono essere sperimentate, interpretate, elaborate e modificate in una relazione sociale sotto controllo per eccellenza: lo studio dello psicologo.