Violenza fisica

Quanti i fatti  di cronaca che narrano storie di sofferenza, di prevaricazione, di brutalità di un essere umano su un altro suo simile, e quanti di questi fatti sono riferiti a storie che accadono all’interno della famiglia, con la stragrande maggioranza di brutalità e violenza operate dalla mano di un uomo sulla propria moglie, compagna, fidanzata, ma anche sui figli, generalmente in tenera età, ma non solo.

L’ISTAT riferisce nell’anno 2018 che la percentuale di donne vittime di violenza nel corso della loro vita  costituisce il 31,5% della popolazione femminile nel range d’età 16-70, dunque 6 milioni 788 mila, un’enormità.

Il 20% circa ha subito violenza fisica, con oltre la metà (12,6%) ad opera del partner o di un ex partner: spintoni, schiaffi, calci, pugni operati sul corpo, secondo una propria e vera aggressione, ma non solo: è operata anche attraverso la messa in atto di comportamenti offensivi su qualcosa o qualcuno a cui la persona tiene, come  figli, animali, oggetti personali. Dunque la violenza fisica comprende qualsiasi contatto fisico che mira a intimorire e controllare un’altra persona, partendo da un impedimento e una spinta fino a giungere all’aggressione fisica grave, che richiede interventi d’emergenza a carattere medico.

Dietro le statistiche che presentano il fenomeno ci sono le persone: uomini violenti che fanno valere la forza bruta, l’intimidazione, la prevaricazione, la strumentalizzazione delle relazioni, degli affetti, dei sentimenti, al fine di costruire a propria misura il mondo che li circonda, la famiglia che vogliono, non quella che vorrebbero.

Tutte le persone hanno desideri, fantasie, speranze, scopi da perseguire e raggiungere, e lungo lo scorrere della vita si operano scelte, si lavora duramente per ottenere ciò che si anela, ma con la consapevolezza che tra ciò che è e ciò che vorremmo esiste una differenza sostanziale, accettando la realtà che ci circonda e ridimensionando la visione egoistica ed egocentrica del mondo.

Gli uomini violenti no, non riescono ad operare questa distinzione, e pur di far coincidere la realtà con ciò che vogliono e che reputano giusto, sono disposti a pagare prezzi altissimi: ergersi a padrone della vita altrui, perdere la compagna di vita a favore di qualcuno da comandare, manipolare, disumanizzare. Perché la donna diventa questo: un “oggetto” senza desideri, speranze, opinioni, personalità pur di non subire violenza, ancora e ancora.

La perdita che accettano questi uomini è altissima in termini umani, ma invisibile ai loro occhi, forse frutto di apprendimenti culturali talmente radicati, maschilisti, di potere agito che rende forti, autorevoli, soddisfatti, su un piano superiore rispetto a chi deve solo obbedire, pena la punizione corporale, agita per insegnare i ruoli, i valori, la giustizia, per ridimensionare coloro che osano avere una personalità, o semplicemente per sfogare i propri mostri personali o le frustrazioni che la vita riserva loro.

Ciò che resta sono i corpi feriti, gli animi soffocati, il terrore che tutto possa succedere nuovamente, per una sciocchezza, la paura della porta di casa che si apre, l’appiattimento di sé al fine di essere compiacenti, i sensi di colpa, la vergogna, le bugie per non tradire la fiducia di chi dice di amare ma di fatto tratta la donna come un oggetto non amabile, indegno di rispetto, di fiducia, di parità, di umanità.

Quante le storie di donne che per anni hanno subito tutto questo, e non perché lo volevano.

Quando l’offesa viene dall’esterno, per una disposizione evolutiva l’essere vivente cerca riparo verso una figura di riferimento, verso qualcuno che si ama e da cui si è amati. Quando il compagno, il fidanzato oltrepassa il limite, per la donna si apre l’inferno: il non riuscire a parare i colpi, il non riuscire a difendersi, sia per una differenza di forza, ma anche per meccanismi evolutivi che si mettono in moto, come il freezing, (ossia un meccanismo di cui ci ha dotato la natura, che condividiamo con gli animali e che consiste nell’immobilità scaturita da una valutazione immediata della minaccia in termini di dimensioni, gravità e impossibilità a sottrarsi alla stessa),  l’incredulità e il dolore scaturito dall’evidenza che chi colpisce è una persona che afferma di amare, la paura e timore per la propria incolumità, ma anche per gli altri, come i figli o genitori anziani presenti in casa in quel momento, o coloro che potrebbero capire, vedendo i segni sul corpo offeso e reagire, denunciando l’aggressore.

Tutto insieme, tutto nella mente di una persona in pericolo, terribile.

E dopo la violenza, il tentativo da parte dell’uomo di dare un senso a ciò che è avvenuto, ovviamente che lo giustifica: “se tu non avessi detto, fatto,…io non avrei dovuto..”, che tutto ciò è successo per COLPA della donna, perché lei ha voluto ISTIGARLO, che lui non avrebbe mai voluto farlo, lui ha dovuto ma ora non lo farà più; si apre così un periodo di gentilezza, gesti amorevoli che convincono la donna che l’evento in sè non si ripeterà, che lui la ama, non le farà più male (fase della luna di miele), ma poi tutto ricomincia. In alcune storie questa fase non esiste: l’intimidazione è aperta, la disparità dei ruoli è sempre operante, il controllo e il comando prestabiliti, la punizione corporale una realtà conclamata.

E le donne non scappano: per paura, per sé stesse, per i figli, perché non avrebbero altro posto dove andare, per non sciogliere la famiglia, per non far parlare di sé nel paese, per vergogna, per i sensi di colpa, per un amore non equilibrato ma che è l’unica cosa che sentono di avere, per mille ragioni.

Alcuni li definiscono amori malati, altri li chiamano violenza e prevaricazione. Nel mezzo resta un gran numero di donne che arrivano in Pronto Soccorso con evidenti segni di maltrattamenti fisici non compatibili con una caduta dalle scale o con un banale incidente domestico, e tante altre donne restano in casa e coprono le offese del corpo con occhiali da sole e maglie lunghe, le offese dell’animo con il silenzio.

Ansia normale e patologica

L’ansia, di per sé, è un’emozione primaria, innata,  indipendente dal contesto d’apprendimento e culturale (famosi gli studi sulle espressioni facciali legate alle emozioni in bambini molto piccoli), presente nel bambino già verso l’ottavo mese di vita, dove si presenta come paura dell’estraneo.

Come tutte le emozioni, ha un forte valore comunicativo e sociale, basata sull’impronta evolutiva di predisposizione di una risposta adeguata e adattiva agli stimoli presenti nell’ambiente. Aumento battito cardiaco, sudorazione, iperventilazione, tremori e tensione muscolari risultano essere aggiustamenti fisiologici avviati da un comando a carattere del sistema nervoso centrale per favorire nell’organismo una risposta di tipo “attacca, scappa o immobilizzati” dinanzi ad un pericolo.

Dunque l’ansia prepara un organismo a reagire ad una minaccia, in maniera immediata, non ragionata, in quanto il ragionamento, seppur in forma ridotta, comporta un impegno di tempo che l’organismo non si può permettere dinanzi ad un pericolo imminente.

Questa argomentazione ci illumina su come tra l’uomo e gli altri mammiferi vi sia una linea di continuità: basti pensare alle reazioni fulminee che siamo abituati ad osservare nei documentari naturalistici, dove la preda “scatta” alla percezione del minimo movimento da parte del predatore, e come questi compia movimenti quasi impercettibili al fine di avvicinarsi quanto più possibile alla preda presa di mira.

Le reazioni fisiologiche che sono presenti nell’ansia trovano spiegazione e comprensione nella dinamica sopra citata: l’organismo che percepisce la minaccia attiva in un tempo limitatissimo tutte le risorse di cui dispone per fronteggiare il pericolo o per scappare, dunque l’ossigeno deve essere presente in gran quantità per irradiare ogni parte del corpo, il cuore deve pompare tutto l’ossigeno necessario, ogni muscolo deve essere pronto e teso, la concentrazione massima per percepire minimi variazioni nell’ambiente circostante.

Eppure l’emozione in generale, e in questo caso l’ansia, si avvale di una componente cognitiva, un giudizio iniziale, ciò che R. Lazarus (1966) chiama “valutazione primaria”, che consiste nel riconoscimento di una situazione come minaccia e nella valutazione della probabilità, l’immediatezza e il grado di possibile conseguente danno. Se tale giudizio è notevolmente negativo, l’organismo non prova a fuggire, in quanto la fuga risulterebbe inutile, ma “si congela” (freezing), basandosi sull’assunto che, sempre prendendo come esempio il mondo animale, il predatore non si cibi di animali morti, per non ingerire cibo avariato, compromettendo la propria esistenza.

Questo tipo di reazione, il freezing, seppur difficilmente trova applicazione nel genere umano odierno, in quanto non è comune il cannibalismo, si può riscontrare in diverse situazioni ansiogene, in quanto le reazioni emotive sono state inglobate nel nostro cervello dei nostri antenati preistorici milioni di anni fa, consolidate nelle strutture limbiche nella parte più profonda e antica del telencefalo e correlate alle funzioni fondamentali per la conservazione della specie.

Dunque l’ansia è un’emozione importante, ma si presenta all’esperienza soggettiva come tendenzialmente spiacevole: se una lieve tensione che accompagna l’azione può essere sopportata e gestita nel breve periodo, un’ansia forte dà luogo a forti sensazioni fisiologiche che, insieme ad una valutazione primaria negativa e ad un tempo maggiore di persistenza, può produrre sensazioni estremamente sgradevoli ed insopportabili.

E’ ciò che si sperimenta nell’ansia forte e nell’ansia patologica (attacchi di panico, disturbo da panico, agorafobia, ipocondria, ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, ansia specifica, ansia generalizzata).

La prima può verificarsi in presenza di forti minacce di pericolo o laddove si valuti un evento particolarmente grave, immediato, comportante gravi conseguenze: maggiore è la minaccia, maggiore sono le risorse messe in campo per fronteggiarla.

La seconda si sperimenta nel momento in cui tutta la costellazione sintomatologica si attiva in assenza di un reale pericolo o in contesti ambientali che di per sé non comportano minacce.

In questo caso le reazioni più frequenti sono: allarme sulle sensazioni percepite, utilizzo di comportamenti di protezione, evitamento.

Lo spaventarsi delle sensazioni corporee percepite come sgradevoli in genere comportano un aumento di ansia, con conseguente peggioramento della situazione.

L’utilizzo di comportamenti di protezione (sedersi, sdraiarsi, allontanarsi, etc.) possono produrre un beneficio nel breve periodo, ma nel lungo periodo non risolvono la situazione ansiogena né producono benefici consistenti.

L’evitamento (non frequentare luoghi dove si presenta la sintomatologia, non guidare, non parlare in pubblico, etc.), oltre a peggiorare e a prolungare il disagio psicologico in atto, conduce alla lunga ad un peggioramento della qualità di vita di una persona, che vede restringere intorno a sé gli ambiti di interesse e di azione, all’insegna dell’impoverimento della vita in generale e limitazioni al proprio valore personale.