Violenza verbale e violenza psicologica

La violenza verbale consiste in una serie di attacchi alla persona basati prevalentemente sul linguaggio, mirati a umiliare, denigrare, offendere l’interlocutore, in maniera diretta (insulti, urla, parole scurrili) o indiretta (svalutazione del valore personale, in toto o in relazione ad alcuni ruoli, insoddisfazione delle azioni o della condotta, biasimo).

La violenza psicologica è composta da una serie di atti comunicativi, di natura verbale e/o comportamentale, che mira sistematicamente a sgretolare il senso di sé di una persona, attraverso il dubbio, il rifiuto, la non accettazione dell’Altro, la critica spietata, l’intimidazione volta a non parlare o denigrando ogni pensiero, desiderio, volontà perché etichettati come “non appropriati”, “infantili”, “dannaggiosi”, “senza alcun valore”.

Se il linguaggio dell’uomo violento si regge su frasi esplicite (stai zitta, non capisci niente, quando parlo io tu non devi fiatare, non contraddirmi, come ti permetti di rispondermi) ed implicite (era proprio necessario?, dici solo stupidaggini, mai sentite tante fesserie, faresti meglio a misurarti le parole prima di aprire bocca), il comportamento si palesa in azioni volte a dimostrare la propria superiorità: non rispettare i turni verbali, prevaricando la libera espressione, fare occhiate di disapprovazione, sminuire pubblicamente il pensiero della donna, urlare contro di lei, dimostrare il proprio disprezzo attraverso sguardi torvi, minacciosi, volti ad intimidire e a voler comunicare la piccolezza in termini di valori, di capacità, di intelligenza della donna.

Quanto detto non si esaurisce in un confronto o in una discussione, in quanto in UN momento di ira può succedere di esagerare e poter sconfinare nel cattivo gusto, da ambo le parti.

La violenza fisica e psicologica vanno invece ascritte ad uno stile comunicativo persistente ed abitudinario, volto a demolire la donna che esprime i propri pensieri ed emozioni, motivazioni, desideri, scelte quotidiane e di vita, nei suoi ruoli di donna, di madre, di figlia, di lavoratrice, di amica, di essere umano, al fine di preservare la propria immagine di padrone, di potere assoluto, di detentore della giustizia e della verità.

Nella violenza verbale dell’uomo si ritrova il senso di vulnerabilità dello stesso: chi non sa sostenere una discussione vuole interromperla, a qualsiasi costo; chi si sente minacciato nelle sue certezze da una visione della vita differente diventa aggressivo, al fine di preservare la sua fragile identità; chi egoisticamente ricerca la propria felicità è bloccato ed infastidito da chi richiama la sua attenzione ad un progetto condiviso; chi ha costruito con fatica un equilibrio instabile si sente frustrato nel dover rivedere le proprie scelte ed aprirsi ad una visione dell’Altro come valore aggiunto piuttosto che come minaccia.

L’Altro diventa minaccia, nemico, ostacolo da superare, il mezzo è la forza bruta, verbale e non.

Nella psicologia della violenza di genere, la donna è percepita come minacciosa, è nemico, è fastidio, va schiacciata.

La strategia predominante consiste nell’attaccare e nel ridimensionare il valore della donna: la prima attraverso espressioni dirette volte a mettere con le spalle al muro l’avversario, la seconda attraverso attacchi subdoli al proprio valore personale, in privato ma molto più spesso pubblicamente, dinanzi alla famiglia d’origine, ai figli, alle amicizie, a sconosciuti.

La donna aggredita, verbalmente e psicologicamente, sperimenta in maniera cronica diverse emozioni e sviluppa nuove credenze su di sé.

Innanzitutto lo stupore: chi non è in uno stato di conflitto e riceve risposte aggressive viene spiazzato, in quanto lo stato d’animo è sintonizzato su ben altre frequenze, ad esempio quelle della mera comunicazione, dello scambio d’idee.

Si presentano successivamente sbigottimento, incredulità “cosa succede, forse non sto capendo”; ci si mette in discussione “mi sarò espressa male, avrò sbagliato”.

Poi paura e vergogna, a cui possono seguire condizioni cliniche conclamate: disturbi ansiosi, disturbi depressivi, ma anche disordini alimentari, traumi e disturbi dissociativi, alterazioni del sonno.

Tutto diventa incerto, ci si sente sempre in pericolo, la percezione di sé è caratterizzata da dubbi, inefficienza, inefficacia, senso di vuoto. L’incertezza è una costante, diminuisce il proprio valore personale, aumenta il ritiro sociale, si entra in circoli viziosi che è difficile riconoscere e interrompere.

Ci si sente inappropriata come donna, come madre, calano le performance, la voglia di mettersi in gioco, la tranquillità, l’equilibrio; ci si sente debole nel non saper rispondere, schiacciato dal peso della critica e del disprezzo; ci si sente finita, obbligata ad accettare lo stato delle cose, senza speranza.

La difficoltà maggiore di queste situazioni, da non dimenticare, deriva dal legame che esiste tra violento e vittima: chi opera questo tipo di violenza non è il passante o il vicino di casa, al quale si può reagire, ma è il compagno di vita, padre dei propri figli, è chi mangia a tavola con te, chi dorme accanto a te, è la persona con cui esci ed incontri amici, è la persona che dice di amarti, che lo fa perché ti vuole bene, per migliorarti, è chi nega di averlo fatto ed è solo pura invenzione, è chi dici che è un tuo problema perché non sai accettare le critiche.

Questo tipo di violenze, verbale e psicologiche, sono subdole, sono nascoste, lasciano ferite che non si vedono, e che comunque sanguinano, influenzano molto la modificata visione che la donna ha di sé, la sua autoimmagine, non sono facilmente comunicabili, e spesso non sono credute: non sempre l’uomo violento verbalmente e psicologicamente è anche violento fisicamente, il più delle volte sono uomini che non alzano le mani, ma esprimono tutta la loro vulnerabilità, le loro fragilità, la loro inconsistenza attraverso la mera demolizione dell’identità altrui, al fine di fare emergere la loro “piccola”persona. Senza questo meccanismo di negazione dell’Altro, loro sarebbero identità vacue, deboli, inconsistenti, avrebbero una vita psicologica molto ristretta e fragile.

Se non si fossero trasformati in carnefici, si avrebbe una visione di loro come di persone che hanno bisogno di aiuto, che necessitano di un profondo lavoro psicoterapico al fine di cogliere i significati profondi delle loro debolezze e fragilità. Invece, la maggior parte delle volte si lavora con le vittime, al fine di fornire gli strumenti utili per riconoscere lo stato di vessazioni nel quale vivono, accendere una luce di speranza verso la non ineluttabilità della situazione, per renderle nuovamente attive e padrone della loro vita.

 

 

 

 

Anoressia Nervosa: un quadro d’insieme

Tra i Disturbi del Comportamento Alimentare, l’anoressia è di certo uno dei più conosciuti, sia per le conseguenze fisiche che si evincono dalla mera osservazione di un soggetto con tale patologia, sia per la diffusione di informazioni a carico dei mass media e delle associazioni che lavorano sulla prevenzione a fronte dell’alto tasso di mortalità che tale patologia comporta.

L’Anoressia Nervosa è un disturbo caratterizzato dalla presenza di evidenti alterazioni del comportamento alimentare, che ha il proprio esordio tipicamente nell’adolescenza (anche se l’età media di insorgenza tende a scendere progressivamente) con l’adozione di regole dietetiche rigide ed estreme.

Sovente la dinamica si attiva della semplice adozione di una dieta per raggiungere uno standard di peso desiderato, ma il raggiungimento dell’obiettivo assume i connotati di insoddisfazione, di ulteriore perseveranza di un obiettivo che appare sempre più sfuggente ed inarrivabile, con relativo calo del peso oltre i normali valori di Indice di Massa Corporea (BMI), che raggiunge valori legati al sottopeso, anche grave. Oltre alla dieta ferrea, alcuni individui adottano l’esercizio fisico eccessivo e compulsivo, altri metodi di condotta di eliminazione (vomito, lassativi, diuretici).

Ciò che appare centrale in questo disturbo è l’alterazione della percezione di peso e immagine corporea: questi due elementi vengono percepiti dal soggetto in modo alterato, non conforme ad un dato oggettivo, ed il vissuto che accompagna tali percezioni è di ansia, vergogna, negazione, disgusto.

Per fronteggiare le emozioni negative la strategia adottata dal soggetto anoressico è rappresentata dal controllo del cibo ingerito, dalla negazione del senso di fame, dalla messa di atto di comportamenti compensatori, che danno luogo, in definitiva, a sensazioni di benessere, che sostengono la sintomatologia anoressica attraverso l’attivazione di circoli viziosi.

La percezione di autocontrollo diviene apparente e superficiale: se dall’esterno è facile osservare soggetti determinati a perseguire uno stile di vita controllato, aderente a regole fisse e rigide, a carattere alimentare, di attività fisica, lavorativa, di studio, nel profondo i soggetti anoressici sono caratterizzati da livelli di stress importanti (al fine di mantenere una organizzazione di comportamenti altamente elaborata), da spirali di emozioni negative (che si attivano nel momento in cui ci si discosta anche lievemente del must autoimposto), dal progressivo isolamento sociale, dal calo dei livelli di prestazioni a cui sono abituati.

L’autostima è incentrata unicamente sull’immagine corporea, a dispetto delle diverse sfaccettature di una personalità multideterminata.

La componente cognitiva del disturbo è rappresentata dalla negazione, soprattutto a se stessi, della gravità fisiologica, mentale, emotiva, sociale del disturbo, dovuta all’alterazione di peso e immagine corporea sopracitata: emerge chiaramente come le persone che soffrono di tale disturbo non hanno alcuna motivazione a chiedere aiuto e a sostenere un trattamento. Il soggetto anoressico percepisce un senso di benessere tanto più significativo quanto più sente di avvicinarsi all’obiettivo prefissato (basso peso ponderale), sottovalutando lo stato di deprivazione alimentare a cui sottopone il suo corpo e le complicanze fisiche che ne scaturiscono (basse difese immunitarie, riduzione proteine plasmatiche, caduta di capelli, alterazioni del quadro endocrino, danni all’apparato digerente, cardiocircolatorio, respiratorio, renale, muscolo-scheletrico e nervoso).

Se si giunge ad una consultazione specialistica, generalmente queste persone sono portate dai familiari, testimoni impotenti del declino ponderale e delle regole dietetiche estreme adottate, e la loro presenza è funzionale a placare i timori dei familiari, piuttosto che da una reale consapevolezza del proprio stato di salute.

L’aderenza al trattamento medico e psicologico presenta diverse criticità, legate all’assenza di consapevolezza della malattia: i soggetti anoressici si sentono bene nel loro corpo scarno, pertanto non comprendono la necessità di modificare lo stato delle cose.

Il primo passo è dunque il lavoro sulla motivazione, che risulta indispensabile e preparatorio all’intervento nutrizionale e psicologico, al fine di “ingaggiare” il soggetto anoressico in un sistema di significati condiviso, dove il terapeuta non rappresenta una minaccia, ma anzi diviene alleato nella comprensione delle dinamiche in atto, nella ricerca di nuovi obiettivi e strategie adattivi e funzionali.

Sovrappeso e obesità in età evolutiva

Sempre più frequentemente sui mass-media e nelle riviste specializzate si parla del problema del sovrappeso nella popolazione giovanile, e i dati che vengono divulgati presentano una situazione allarmante.

L’Italia è ai primi posti in Europa per il numero di bambini in sovrappeso e i dati sono destinati a peggiorare in quanto in Europa il sovrappeso in età scolare cresce al ritmo di circa 400.000 casi l’anno.

 Dal 30 al 60% dei bambini obesi mantengono l’eccesso ponderale in età adulta e presentano, più frequentemente del previsto, alterazioni metaboliche e complicanze rispetto all’obesità che si manifesta in età adulta.

I dati italiani sembrano confermare questo trend: l’ISTAT parla di ragazzi compresi tra i 6 e i 17 che presentano un eccesso ponderale nel 24% dei casi, percentuale che conferma i dati emersi da un’indagine epidemiologica dell’Istituto Superiore di Sanità (2008) effettuata su un campione rappresentativo di bambini frequentanti la terza classe della Scuola primaria (8 anni), con percentuali stimate intorno al 23,2% di bambini sovrappeso e il 12% di bambini obesi.

Il sovrappeso rappresenta una condizione problematica ampia, dove si sommano alterazioni a carattere medico, stigma sociale, problematiche psicologiche.

Un bambino che presenta un eccesso ponderale significativo può andare incontro a una serie di problemi a carattere medico nel futuro: i disturbi più frequentemente legati al sovrappeso comprendono i disturbi cardiocircolatori e osteo-articolari, insorgenza di diabete, ipertensione.

Lo stigma sociale rappresenta un ulteriore scoglio nella vita di un bambino sovrappeso/obeso: solitamente i bambini hanno un linguaggio molto schietto e laddove intravedono vulnerabilità rispetto ad una caratteristica di un compagno, non esitano a sottolinearla mettendola in evidenza con termini offensivi o comunque “coloriti”. Se questi commenti o definizioni possono essere legati ad uno scherzo più o meno bonario, nel bambino “etichettato” questi commenti possono prendere forma di timori e insicurezze, possono evidenziarsi vulnerabilità legate a temi quali accettazione, piacevolezza personale e sociale, integrazione nel gruppo, immagine corporea e autostima, possono originarsi disturbi clinici conclamati.

Ne derivano problematiche psicologiche di varia natura ed entità (ansia, depressione, ritiro sociale, disturbi alimentari), in base alla struttura di personalità che nel bambino va delineandosi e prendendo forma. E’ importante ricordare che un bambino, seppur in tenera età, è pur sempre una persona, dotata di temperamento, carattere, desideri, aspettative, fragilità, all’interno della quale le basi sono state poste attraverso le prime relazioni, in primis qualla materna, e altre andranno a costituirsi e consolidarsi nelle relazioni con i pari.

Al fine di contenere la diffusione di questa condizione nella popolazione infantile, la Società Italiana di Pediatria ha stilato il seguente decalogo di buone prassi:

  1. Controllare il peso e la statura con regolarità (almeno ogni sei mesi)

  2. Fare cinque pasti al giorno evitando i “fuoripasto”

  3. Consumare almeno cinque porzioni di frutta o verdura al giorno

  4. Bere molta acqua limitando le bevande zuccherate

  5. Ridurre i grassi a tavola, in particolare salumi, fritti, condimenti, dolci

  6. Evitare di utilizzare il cibo come “premio”

  7. Privilegiare il gioco all’aperto, possibilmente almeno un’ora al giorno

  8. Camminare a piedi in tutte le occasioni possibili

  9. Praticare uno sport con regolarità.

  10. Limitare la “videodipendenza” durante il tempo libero: massimo 2 ore al giorno.

A carattere psicologico si delineano percorsi di sostegno al minore attraveso interventi comportamentali a carattere familiare, che comprendono cambiamenti virtuosi:

  1. dello stile alimentare,

  2. dello stile di vita (sedentario vs attivo),

  3. della comunicazione tra i componenti del nucleo familiare

e interventi singoli e di gruppo

  1. di sostegno emotivo e motivazionale.