Anoressia Nervosa: un quadro d’insieme

Tra i Disturbi del Comportamento Alimentare, l’anoressia è di certo uno dei più conosciuti, sia per le conseguenze fisiche che si evincono dalla mera osservazione di un soggetto con tale patologia, sia per la diffusione di informazioni a carico dei mass media e delle associazioni che lavorano sulla prevenzione a fronte dell’alto tasso di mortalità che tale patologia comporta.

L’Anoressia Nervosa è un disturbo caratterizzato dalla presenza di evidenti alterazioni del comportamento alimentare, che ha il proprio esordio tipicamente nell’adolescenza (anche se l’età media di insorgenza tende a scendere progressivamente) con l’adozione di regole dietetiche rigide ed estreme.

Sovente la dinamica si attiva della semplice adozione di una dieta per raggiungere uno standard di peso desiderato, ma il raggiungimento dell’obiettivo assume i connotati di insoddisfazione, di ulteriore perseveranza di un obiettivo che appare sempre più sfuggente ed inarrivabile, con relativo calo del peso oltre i normali valori di Indice di Massa Corporea (BMI), che raggiunge valori legati al sottopeso, anche grave. Oltre alla dieta ferrea, alcuni individui adottano l’esercizio fisico eccessivo e compulsivo, altri metodi di condotta di eliminazione (vomito, lassativi, diuretici).

Ciò che appare centrale in questo disturbo è l’alterazione della percezione di peso e immagine corporea: questi due elementi vengono percepiti dal soggetto in modo alterato, non conforme ad un dato oggettivo, ed il vissuto che accompagna tali percezioni è di ansia, vergogna, negazione, disgusto.

Per fronteggiare le emozioni negative la strategia adottata dal soggetto anoressico è rappresentata dal controllo del cibo ingerito, dalla negazione del senso di fame, dalla messa di atto di comportamenti compensatori, che danno luogo, in definitiva, a sensazioni di benessere, che sostengono la sintomatologia anoressica attraverso l’attivazione di circoli viziosi.

La percezione di autocontrollo diviene apparente e superficiale: se dall’esterno è facile osservare soggetti determinati a perseguire uno stile di vita controllato, aderente a regole fisse e rigide, a carattere alimentare, di attività fisica, lavorativa, di studio, nel profondo i soggetti anoressici sono caratterizzati da livelli di stress importanti (al fine di mantenere una organizzazione di comportamenti altamente elaborata), da spirali di emozioni negative (che si attivano nel momento in cui ci si discosta anche lievemente del must autoimposto), dal progressivo isolamento sociale, dal calo dei livelli di prestazioni a cui sono abituati.

L’autostima è incentrata unicamente sull’immagine corporea, a dispetto delle diverse sfaccettature di una personalità multideterminata.

La componente cognitiva del disturbo è rappresentata dalla negazione, soprattutto a se stessi, della gravità fisiologica, mentale, emotiva, sociale del disturbo, dovuta all’alterazione di peso e immagine corporea sopracitata: emerge chiaramente come le persone che soffrono di tale disturbo non hanno alcuna motivazione a chiedere aiuto e a sostenere un trattamento. Il soggetto anoressico percepisce un senso di benessere tanto più significativo quanto più sente di avvicinarsi all’obiettivo prefissato (basso peso ponderale), sottovalutando lo stato di deprivazione alimentare a cui sottopone il suo corpo e le complicanze fisiche che ne scaturiscono (basse difese immunitarie, riduzione proteine plasmatiche, caduta di capelli, alterazioni del quadro endocrino, danni all’apparato digerente, cardiocircolatorio, respiratorio, renale, muscolo-scheletrico e nervoso).

Se si giunge ad una consultazione specialistica, generalmente queste persone sono portate dai familiari, testimoni impotenti del declino ponderale e delle regole dietetiche estreme adottate, e la loro presenza è funzionale a placare i timori dei familiari, piuttosto che da una reale consapevolezza del proprio stato di salute.

L’aderenza al trattamento medico e psicologico presenta diverse criticità, legate all’assenza di consapevolezza della malattia: i soggetti anoressici si sentono bene nel loro corpo scarno, pertanto non comprendono la necessità di modificare lo stato delle cose.

Il primo passo è dunque il lavoro sulla motivazione, che risulta indispensabile e preparatorio all’intervento nutrizionale e psicologico, al fine di “ingaggiare” il soggetto anoressico in un sistema di significati condiviso, dove il terapeuta non rappresenta una minaccia, ma anzi diviene alleato nella comprensione delle dinamiche in atto, nella ricerca di nuovi obiettivi e strategie adattivi e funzionali.

Le scelte nelle relazioni umane

Familiari, amici, fidanzati, coniugi, colleghi di lavoro, compagni di viaggio….quanti incontri si fanno nella vita, alcuni restano tali, altri evolvono in rapporti duraturi.

Nella vastità dei rapporti umani, di qualsiasi tipo, tendenzialmente una persona sceglie da chi farsi conoscere, amare, frequentare. Ma come avvengono queste scelte?

Per lungo tempo filosofi e ricercatori hanno indagato questo costrutto e varie sono state le interpretazioni date a questo tipo di comportamento. Fino a non molto tempo fa si è ipotizzato, con un largo consenso intellettuale, che le scelte compiute dall’uomo fossero basate su ragionamenti legati alla logica e alla razionalità; per la donna le considerazioni sono state le medesime, accordando un aspetto emotivo più importante da aggiungere a tale visione.

Recentemente, anche grazie a studi condotti a livello di neuroimaging, si è ipotizzato che l’uomo sia meno razionale di quanto si è creduto per lungo tempo. Le scelte compiute sono legate ad altri parametri: economia di pensiero, strategie di coping già utilizzate, uso di pregiudizi e stereotipi, uso di informazioni già presenti in memoria, rievocazione di informazioni connotate emotivamente. Questo significa che una persona, posta dinanzi ad una scelta, non elaborarà sul momento tutte le informazioni di cui dispone e sarà attivo nella ricerca di altre, al fine di padroneggiare l’intero sistema di informazioni, ma procederà in economia, accedendo ai significati già presenti in memoria, a livello razionale ed emotivo, e creando un nuovo ponte tra la propria conoscenza dell’oggetto in esame e le inferenze che la mente produce al riguardo.

Se tale procedimento di scelta si traspone a livello sociale, emerge uno scenario di relazioni umane molto vario ed eterogeneo, dato dalle singole esperienze di un individuo, che dalla nascita attraverso le relazioni primarie con le figure di riferimento, giungono fino ad oggi, e che sono basate sull’interpretazione emotiva memorizzata che funge da guida.

Quando una persona si relaziona con un’altra, ciò che la guida è l’idea che si è formata degli altri, attraverso le interazioni primarie nell’infanzia: se l’Altro è interiorizzato come sufficientemente buono, disponibile, accogliente, una persona crescerà con l’idea di sé come amabile, desiderato, buono, e la ricerca dell’Altro sarà dettata da queste caratteristiche.

Quando invece l’infanzia è caratterizzata da esperienze negative, l’idea di come sono fatti gli altri avrà altre caratteristiche: inaffidabilità, trascuratezza, abbandono; l’idea di sé potrebbe rivestire significati legati alla non amabilità, essere sbagliati, essere cattivi, e la relazioni umane attuali potrebbero riflettere questo sistema di significati.

E’ bene tenere a mente che gli elementi sopra citati non sono assoluti (bene-male), ma sono combinati in vari modi e in diversa misura,  ogni esperienza di vita è unica e, pur partendo da un sistema di riferimento creato nell’infanzia (attraverso le prime relazioni significative con la figura di riferimento), può assumere diverse direzioni, in base alle esperienze successive.

Osservando il proprio repertorio sociale, è comune interrogarsi riguardo al perchè una relazione sentimentale è finita, un amico ci ha tradito, non si va d’accordo con i colleghi di lavoro, i rapporti con i vicini di casa sono conflittuali: la risposta a tali interrogativi non è semplice né immediata, il focus della nostra analisi è diretta all’esterno (gli altri sono cattivi o sbagliati) ma anche verso l’interno (sbaglio sempre tutto, è colpa mia), e spesso le risposte che emergono in noi sono cariche di giudizio, rabbia, sensi di colpa, vergogna.

Quando queste analisi  divengono assolute, rigide, non passibili di modifica, è lì che insorge il malessere esistenziale, che può trasformarsi con il tempo in schemi permanenti della personalità, con conseguente peggioramento della qualità di vita, insorgenza di disturbi psicologici, conseguenze a carattere sociale (ritiro).

Fantasie e paure sulla figura dello psicologo

Negli ultimi anni, sulla scena della salute e del benessere si sta affermando sempre di più la figura dello psicologo, e questo grazie alla maggior diffusione di professionisti sul territorio, alle campagne di promozione (ad esempio la settimana del benessere psicologico in Ottobre) e sensibilizzazione su molti temi eterogenei (tavole rotonde multidisciplinari che vedono la copresenza di psicologi e altri specialisti della salute).

Aumentano le persone che richiedono un consulto allo psicologo, così come di pari passo cresce la domanda di benessere psicologico attraverso la partecipazione a corsi o gruppi tematici gestiti da psicologi.

Eppure, nonostante nelle conversazioni quotidiane si possa esprimere la necessità di recarsi dallo psicologo, non sempre ciò che si dice viene trasformato in una azione concreta.

Le motivazioni possono essere varie, e spesso non difformi dai buoni propositi sul migliorare il proprio stato di salute organico per poi farsi prendere dai mille impegni quotidiani.

Accanto a queste “dimenticanze” generali, esistono delle motivazioni che ruotano specificatamente attorno alla figura dello psicologo.

Partiamo dalla più diffusa e facilmente intuibile: il timore della vulnerabilità. E’ comune alla condizione umana attraversare periodi più o meno impegnativi, stressanti, in cui ci si può sentire inadeguati piuttosto che sbagliati, per breve o lungo tempo, a livelli che variano dalla lieve percezione alla avanzata severità. O è normale sentirsi tristi o depressi o rabbiosi. Può capitare anche di ritrovarsi in una spirale di disagio emotivo, relazionale o identitario.

Eppure andare dallo psicologo non è visto come un normale processo di promozione del benessere o terapeutico, bensì come l’anticamera per ammettere di essere sbagliati, matti, malati, e le definizioni negative potrebbero andare avanti ai limiti della fantasia.

L’aderenza dell’immagine del matto con la visione di sè come vulnerabile crea un’alterazione tale della realtà che condiziona le nostre scelte. Se è del tutto plausibile prenotare una visita dentistica piuttosto che una visita ortopedica per sofferenze legate a parti corporee specifiche, è impensabile prenotare un consulto psicologico, perché potrebbe assumere il significato di se stessi come malati mentali, del tipo: “Sto bene, non ho bisogno dello strizzacervelli!!”

Ciononostante un cervello ce l’abbiamo tutti, e questo bellissimo strumento di cui la natura ci ha dotato riesce a costruire meraviglie ma è soggetto, come ogni parte del nostro corpo, a empasse. Ma non si tratta ancora del cervello in se, perché dinanzi ad un mal di testa non disdegnamo di prendere una pastiglia o andare dal neurologo. Ciò che è difficile accettare sono le nostre emozioni, i nostri pensieri, le nostre difficoltà nelle relazioni: il nostro tallone d’Achille, ciò che fa sentire vulnerabili, che ci toglie la terra da sotto i piedi.

Tali interpretazioni sono di per sé limitative, ma possiamo aggiungere ciò che gli altri potrebbero pensare di noi, o ancora meglio, ciò che io credo che gli altri potrebbero pensare di me: lo stigma sociale. Ancora una volta la malattia organica è tollerata, ma il disagio mentale potrebbe rappresentare ancora un tabù. Quante conversazioni fra amiche, amici e familiari che ruotano intorno a quale accertamento è stato effettuato rispetto a quale lista di sintomi si è presentata. Ma di quello che si prova, quello che si pensa, come tutto ciò incide sulla qualità di vita, quello, se tollerato, è privato, non si diffonde.

Accanto a questi due pregiudizi (vulnerabilità come malattia mentale e stigma sociale) si possono delineare dubbi e incertezze circa il professionista: “Quale scelgo? In base a quali informazioni? Saprà comprendere la mia situazione? Mi giudicherà? Come scelgo di chi fidarmi? Come fare per scegliere un professionista competente?”

Sebbene le incertezze riguardo le competenze dello psicologo siano analoghe a quelle riguardanti qualsiasi professionista non conosciuto, è pur vero che è raro che le persone si informino sulle qualità dello psicologo nella propria rete sociale, per timore di essere additato come “quello che non sta bene con la testa”. Talvolta le opzioni sono 2:

  1. Ricerca su internet

  2. Tenersi il disagio, con la speranza che prima o poi passerà.

Entrambe queste soluzioni comportano dei rischi. La ricerca su internet è di per se limitante, in quanto l’elenco dei professionisti è legata a criteri di pubblicità, visibilità, piacevolezza estetica o lettura del curriculum vitae. Ma tali informazioni non possono essere utilizzate per stabilire se un professionista è competente, accogliente, umano, comprensivo: perché quando iniziamo un percorso di sostegno o cura, l’aspetto o la diffusione sui social del terapeuta diviene irrilevante, mentre assume spessore l’umanità e la competenza dello stesso. D’altronde non si va dal cardiologo perché ha una bella macchina, ma perché si prenda cura del nostro apparato cardiaco.

Anche la seconda soluzione, quello di aspettare tempi migliori, può essere rischioso. Talvolta le persone che ci stanno attorno possono sostenerci adeguatamente nei nostri periodi bui o riusciamo a risollevarci da soli dinanzi ad una caduta, ma non è così sempre, per tutti, per tutte le condizioni. Quando percepiamo di non avere più risorse, né personali, né sociali, allora è arrivato il tempo di agire, cercando un consulto professionale specifico.

Lo psicologo è un professionista della salute mentale, con un bagaglio di competenze accertate attraverso l’iscrizione ad un Albo professionale e il rispetto della normativa deontologica, che opera per promuovere, sostenere, diagnosticare, trattare situazioni di disagio, stress, disturbi clinici, problematiche relazionali e personologiche, senza giudizi, pregiudizi, rispettando le diverse opinioni, scelte religiose, sessuali, razziali, politiche, esistenziali.

E’ tenuto all’aggiornamento continuo e al confronto con le ricerche della comunità scientifica di riferimento, al fine di assicurare alla propria utenza il miglior intervento possibile.

L’ampio panorama degli approcci teorici e metodologici possono indurre l’utente ad una confusione dinanzi a quale tipo di psicologo contattare, ma proprio questa ricchezza di offerte rispecchia la complessità della mente e dell’essere umano in sè, e permette in tal modo di scegliere un trattamento più in linea con la propria personalità, a condizione che il trattamento in sé sia supportato da ricerche che convalidino la sua bontà, efficacia ed efficienza.

Sovrappeso e obesità in età evolutiva

Sempre più frequentemente sui mass-media e nelle riviste specializzate si parla del problema del sovrappeso nella popolazione giovanile, e i dati che vengono divulgati presentano una situazione allarmante.

L’Italia è ai primi posti in Europa per il numero di bambini in sovrappeso e i dati sono destinati a peggiorare in quanto in Europa il sovrappeso in età scolare cresce al ritmo di circa 400.000 casi l’anno.

 Dal 30 al 60% dei bambini obesi mantengono l’eccesso ponderale in età adulta e presentano, più frequentemente del previsto, alterazioni metaboliche e complicanze rispetto all’obesità che si manifesta in età adulta.

I dati italiani sembrano confermare questo trend: l’ISTAT parla di ragazzi compresi tra i 6 e i 17 che presentano un eccesso ponderale nel 24% dei casi, percentuale che conferma i dati emersi da un’indagine epidemiologica dell’Istituto Superiore di Sanità (2008) effettuata su un campione rappresentativo di bambini frequentanti la terza classe della Scuola primaria (8 anni), con percentuali stimate intorno al 23,2% di bambini sovrappeso e il 12% di bambini obesi.

Il sovrappeso rappresenta una condizione problematica ampia, dove si sommano alterazioni a carattere medico, stigma sociale, problematiche psicologiche.

Un bambino che presenta un eccesso ponderale significativo può andare incontro a una serie di problemi a carattere medico nel futuro: i disturbi più frequentemente legati al sovrappeso comprendono i disturbi cardiocircolatori e osteo-articolari, insorgenza di diabete, ipertensione.

Lo stigma sociale rappresenta un ulteriore scoglio nella vita di un bambino sovrappeso/obeso: solitamente i bambini hanno un linguaggio molto schietto e laddove intravedono vulnerabilità rispetto ad una caratteristica di un compagno, non esitano a sottolinearla mettendola in evidenza con termini offensivi o comunque “coloriti”. Se questi commenti o definizioni possono essere legati ad uno scherzo più o meno bonario, nel bambino “etichettato” questi commenti possono prendere forma di timori e insicurezze, possono evidenziarsi vulnerabilità legate a temi quali accettazione, piacevolezza personale e sociale, integrazione nel gruppo, immagine corporea e autostima, possono originarsi disturbi clinici conclamati.

Ne derivano problematiche psicologiche di varia natura ed entità (ansia, depressione, ritiro sociale, disturbi alimentari), in base alla struttura di personalità che nel bambino va delineandosi e prendendo forma. E’ importante ricordare che un bambino, seppur in tenera età, è pur sempre una persona, dotata di temperamento, carattere, desideri, aspettative, fragilità, all’interno della quale le basi sono state poste attraverso le prime relazioni, in primis qualla materna, e altre andranno a costituirsi e consolidarsi nelle relazioni con i pari.

Al fine di contenere la diffusione di questa condizione nella popolazione infantile, la Società Italiana di Pediatria ha stilato il seguente decalogo di buone prassi:

  1. Controllare il peso e la statura con regolarità (almeno ogni sei mesi)

  2. Fare cinque pasti al giorno evitando i “fuoripasto”

  3. Consumare almeno cinque porzioni di frutta o verdura al giorno

  4. Bere molta acqua limitando le bevande zuccherate

  5. Ridurre i grassi a tavola, in particolare salumi, fritti, condimenti, dolci

  6. Evitare di utilizzare il cibo come “premio”

  7. Privilegiare il gioco all’aperto, possibilmente almeno un’ora al giorno

  8. Camminare a piedi in tutte le occasioni possibili

  9. Praticare uno sport con regolarità.

  10. Limitare la “videodipendenza” durante il tempo libero: massimo 2 ore al giorno.

A carattere psicologico si delineano percorsi di sostegno al minore attraveso interventi comportamentali a carattere familiare, che comprendono cambiamenti virtuosi:

  1. dello stile alimentare,

  2. dello stile di vita (sedentario vs attivo),

  3. della comunicazione tra i componenti del nucleo familiare

e interventi singoli e di gruppo

  1. di sostegno emotivo e motivazionale.

La Terapia Cognitivo Comportamentale

Negli ultimi tempi è sempre più diffusa la cultura del benessere psicologico, cioè la consapevolezza che non solo il corpo, ma anche la mente necessitano di attenzione, buone pratiche di gestione delle difficoltà e percorsi di sostegno e cura mirati ad affrontare problematiche che hanno un impatto importante sulla salute globale dell’individuo.

Quando ad una persona fa male una gamba va dal medico curante e successivamente dall’ortopedico; se si presentano problemi al petto si va dal cardiologo.Ma se le difficoltà si presentano a livello emotivo, a chi ci si rivolge? Al momento è assente nel SSN la figura dello psicologo di base, che sarebbe un professionista analogo al medico di base, anche se l’Ordine degli Psicologi è da anni che lavora a questo progetto.

L’alternative al momento disponibili sono il passaparola ed il web.La prima soluzione è praticabile da coloro che hanno superato il pregiudizio e la vergogna legata alla fragilità emotiva e che fa coincidere lo psicologo con lo “strizzacervelli che cura i matti” ed incontra i limiti della conoscenza sul territorio di questo specialista nella propria rete sociale.

La seconda soluzione apre un mondo sconosciuto: psicologi senza specializzazione, psicologi con master, psicologi psicoterapeuti, psicoterapeuti psichiatri….Ma a chi rivolgersi? Quale differenza esiste tra le differenti e numerose terapie? Quale farà al mio caso?

La vastità delle terapie presenti nel panorama psicologico e l’assenza di un referente autorevole in materia (come il medico di base) che possa accogliere la richiesta d’aiuto e veicolarla verso lo strumento (il tipo di approccio) maggiormente efficace per un determinato problema, rende alquanto difficoltoso poter accedere ad un percorso di cura ad hoc, o almeno ci introduce in un terreno misterioso dove non si è certi di aver effettuato la giusta scelta se non facendone esperienza diretta.La terapia cognitivo-comportamentale (TCC) è un tipo di approccio basato sulle teorie della mente attualmente più accreditate dalla comunità scientifica internazionale e si avvale di strumenti di modificazione comportamentale che si sono rivelati utili nel produrre cambiamenti significativi in diversi disturbi clinici.

La TCC costituisce il “gold standard”, ossia l’approccio terapeutico di maggior efficacia valutato con studi randomizzati e controllati, per tutti i Disturbi d’ansia (Disturbo di panico, Ansia sociale, Disturbo d’ansia generalizzata, Disturbi somatoformi, Fobie specifiche) e per i Disturbi dell’umore (Depressione, Distimia, Disturbo bipolare).

Le ultime evidenze di efficacia arrivano da ricercatori americani (David, Cristea e Hofmann 2018) i quali sostengono che la CBT (in Italiano TCC) è il trattamento gold standard che attualmente abbiamo a disposizione nel campo della psicoterapia per i seguenti motivi:

1) La CBT è la forma di psicoterapia che ha il maggior numero di studi che ne hanno valutato l’efficacia.

2) Nessuna altra forma di psicoterapia ha dimostrato di essere sistematicamente superiore alla CBT; se ci sono differenze sistematiche tra le psicoterapie, in genere favoriscono la CBT – si vedano per esempio i trial sulla bulimia nervosa, dove la CBT è risultata significativamente più efficace della psicoterapia psicoanalitica (Poulsen, et al., 2014) e della psicoterapia interpersonale (Fairburn, et al., 2015).

3) I modelli teorici e i meccanismi di cambiamento delle CBT sono stati i più studiati e sono in linea con gli attuali paradigmi tradizionali della mente e del comportamento umano (per es. il processamento delle informazioni).Pertanto, gli autori concludono che la CBT domina le linee guida internazionali per i trattamenti psicosociali, grazie al suo chiaro supporto derivato dalla ricerca, ed è il trattamento di prima linea per molti disturbi, come raccomandato dalle linee guida del National Institute for Health and Care Excellence e dell’American Psychological Association. Ciò nonostante gli autori sottolineano come, sebbene la CBT sia efficace, il lavoro di ricerca deve proseguire, perché alcuni pazienti non rispondono al trattamento oppure ricadono dopo un periodo di remissione sintomatologica.

Depressione. Descrizione e trattamento

Il disturbo depressivo è la malattia mentale più diffusa e sembra in continua crescita (World Health Organization, 1998; 1999).

Ogni anno si ammalano di depressione quasi 100 milioni di individui in tutto il mondo e di questi il 75% non viene trattato o riceve cure inappropriate.

I tassi di prevalenza nell’arco della vita del disturbo depressivo maggiore, per un periodo superiore ai 12 mesi, oscillano tra il 2,6% e il 12,7% negli uomini e tra il 7% e il 21% nelle donne, e si stima che circa un terzo della popolazione soffrirà di un episodio di depressione lieve durante la propria vita.

I possibili esiti della depressione possono essere molto gravi, comportando un notevole deterioramento del funzionamento psicosociale, fino ad arrivare al suicidio.

Tra i pazienti depressi la probabilità di suicidio è del 15% circa. I fattori di rischio suicidario possono essere diversi. Quelli principali evidenziati dagli studi attualmente presenti in letteratura sono:

  • l’appartenenza al sesso maschile;

  • la presenza di ideazione suicidarla;

  • il ritiro sociale;

  • i sentimenti di disperazione, oltre che la durata dell’episodio depressivo ( più tempo dura, più cresce il rischio che la persona commetta suicidio).

Anche quando non si arriva al suicidio, la presenza di un disturbo depressivo può portare comunque a gravi compromissioni nella vita di chi ne soffre: non si riesce più a lavorare o a studiare, a coltivare interessi e mantenere relazioni sociali e affettive, a provare piacere e interesse in alcuna attività.

I pazienti che soffrono di disturbi depressivi presentano uno stato di salute peggiore, un maggior rischio di invalidità e di assenza dal lavoro, una compromissione delle prestazioni lavorative, maggiori difficoltà relazionali in famiglia, maggiore incapacità nell’adempiere il proprio ruolo genitoriale ed un aumento significativo nell’utilizzo dei servizi sanitari.

Misurando le cause di morte, l’incapacità a lavorare, la disabilità e le risorse mediche necessarie, si può ipotizzare che tra circa 15 anni la depressione clinica avrà un peso sulla salute internazionale secondo solo alla malattia cardiaca cronica (Hartley, 1998; WHO, 1998).

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV; APA 1994, DSM V, 2014), chi soffre di disturbo depressivo maggiore presenta, per almeno due settimane:

  • un umore depresso (tristezza, disforia, irritabilità, disperazione, etc.) per tutta la giornata quasi ogni giorno

  • assenza di interesse e piacere nelle attività che prima lo interessavano e lo facevano stare bene.

Ad almeno uno di questi due sintomi se ne aggiungono minimo altri quattro, tra cui

  • faticabilità;

  • cambiamento significativo di peso;

  • disturbi del sonno;

  • agitazione o rallentamento motorio;

  • sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi;

  • difficoltà di concentrazione, di pensiero e di prendere decisioni;

  • pensieri ricorrenti di morte, ideazione suicidaria o tentativi di suicidio.

Per poter porre diagnosi di disturbo depressivo maggiore, la persona non deve aver mai sofferto nella sua vita di altri tipi di alterazione patologica dell’umore quali episodi maniacali, ipomaniacali o misti (depressione e ipo/maniacalità contemporaneamente).

I sintomi depressivi possono comparire quasi improvvisamente in modo acuto in persone che generalmente hanno una personalità “ottimista e allegra” o possono essere presenti da diverso tempo in forma lieve e sottosoglia (distimia) con alcuni momenti o periodi di peggioramento.

Se si considerano quindi, la vasta diffusione dei disturbi depressivi, la loro natura invalidante e l’alto tasso di prevalenza di forme subcliniche, i cui sintomi non arrivano a soddisfare i criteri diagnostici, ma sono significativamente correlati alla probabilità di sviluppare in seguito un episodio depressivo più grave, ci si rende conto di quanto sia importante riconoscere il prima possibile i sintomi depressivi e curarli efficacemente.

Questo impegno diviene ancora più urgente, arrivando a costituire una reale emergenza nel campo della salute mentale, dal momento che i casi di depressione sono sempre più in aumento tra le persone giovani, adolescenti e giovani adulti, e quindi in persone che sono nell’età in cui si costruiscono i mattoni della vita futura, come studiare e trovare un lavoro, fare amicizie, trovare un amore e metter su famiglia.

L’approccio cognitivo ha da sempre posto molta attenzione alla comprensione e alla cura della depressione. Attualmente è uno dei trattamenti più efficaci, tanto che le linee guida internazionali dell’APA (1993, 2000) indicano la Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) come scelta privilegiata nella cura della depressione, associata ai farmaci antidepressivi quando la depressione è grave.

La prima formulazione del modello cognitivo della depressione risale agli inizi degli anni sessanta, quando vennero pubblicati due articoli e un libro di Aaron T. Beck, in cui l’Autore descrive le principali ipotesi esplicative e il protocollo di terapia (1963, 1964, 1967). Da allora sono state avanzate e studiate diverse ipotesi cognitiviste sul disturbo depressivo, la maggior parte delle quali in linea con quelle di Beck. Ancora oggi il modello esplicativo di Beck è la formulazione più nota in clinica e nella ricerca e il suo protocollo terapeutico rimane il più efficace per i disturbi depressivi e costituisce la base dell’intera terapia cognitiva.